“Think Different” – detto? Fatto. Il motto di Steve Jobs è, di certo, uno dei più famosi in tutto il mondo insieme alla sua celebre citazione: Stay Hungry, Stay Foolish! Eppure la storia della sua mente, così poco ordinaria e differente da una qualsiasi altra mente, ha dei buchi neri “di trama” abbastanza ampi.
Ne parlano tanto, affermano la sua genialità; eppure ancor oggi ci sono moltissimi critici di Steve Jobs: testimoni di plagio, avversari che vorrebbero sminuirlo, semplici persone che non vedono nei suoi lavori alcunché di straordinario.
La realtà? Steve Jobs fu senz’ombra di dubbio una delle persone più brillanti del 1990 e del 2000. Guardava il mondo con un occhio diverso, cercando di capirlo come se fosse già cambiato e non solo in uno stato di cambiamento.
Per questo vedeva in ogni suo aspetto una possibilità: quella d’introdursi in un mercato, di realizzare degli oggetti tecnologici per il bene degli altri e di cambiarlo, quel mondo, che lo aveva rifiutato quand’era giovane.
Steve Jobs: sogni ad occhi aperti
Si dice che le idee che gli venivano erano frutto di diversi sogni che faceva e che in ogni momento della giornata poteva avere un’intuizione geniale su un prodotto, su un materiale oppure su una metodologia.
A proposito della metodologia: Jobs la sua l’aveva sviluppata già a 25 anni. I principi fondamentali della stessa li aveva messi sulla carta in moltissimi anni prima.
Era una metodologia al passo con i tempi ed era particolarmente utile per creare dei prodotti realmente vincenti. A proposito: lo sai su cosa puntava Jobs? Sul bell’aspetto.
Perché proprio il lato estetico, il design, era ciò che interessava maggiormente le persone in America in quegli anni. Nient’altro: solo l’aspetto. Ed era un’intuizione di successo. Vincente.
Per esempio si dice che quando venne a casa di John Sculley, Jobs rimase particolare affascinato da… alcune maniglie delle porte. Era un discorso complesso, quello. Jobs, difatti, aveva studiato design industriale e capiva di cosa avesse bisogno la persona, cosa voleva.
Difatti all’epoca ne John ne Steve non ne capivano, di computer. Ciò che volevano era semplicemente rivoluzionare il modo in cui il prodotto veniva proposto ai clienti finali.
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Aspetto estetico del prodotto secondo Steve Jobs
Sia Steve che John, insomma, erano d’accordo sul fatto che bisognasse puntare direttamente sull’aspetto estetico in modo da rendere il prodotto una vera e propria chicca da scoprire: un cioccolatino in sé stesso.
Già al tempo Steve sosteneva che bisognava progettare tutto in modo tale da immaginare l’utente al centro dell’esperienza, per fare sì che fosse lui stesso il capo primario.
Proprio l’utente e i suoi desideri dovevano “pilotare” la produzione aziendale e non è affatto un segreto che cercasse di guardare sempre tutto da una prospettiva diverso rispetto agli altri produttori: come sarebbe stata l’esperienza utente se fosse stato così? E se fosse stato in quell’altro modo cosa sarebbe successo?
A differenza di molte altre aziende che operavano nel settore IT, Jobs considerava che le varie indagini di mercato svolte fossero del tutto inutili. Del resto come poteva un utente decidere cosa egli volesse o meno senza conoscere l’argomento in esame?
Steve non ha mai creduto in un sistema che si basasse su qualcosa che gli utenti non poteva conoscere. D’altro canto egli stesso cercava d’introdursi nelle vesti dell’utente e capire da sé cosa quest’ultimo poteva volere o meno. In questo modo venivano certamente numerosi problemi, tante domane e molti dubbi.
Ma almeno non si perseguiva una pista palesemente falsa cercando d’illudersi che gli utenti sapessero quel che avevano detto. Sempre lui sosteneva che semplicemente non si poteva proporre agli utenti un calcolatore (di quelli che all’inizio furono inventati) per poi mostrare a loro l’evoluzione dal calcolatore a un vero e proprio personal computer.
In tutti i casi l’unica cosa che avrebbero avuto sarebbe stata semplicemente una risposta errata e un’idea errata del sistema che era alla base del funzionamento di entrambi i dispositivi.
Il salto dal calcolatore al PC, insomma, era decisamente troppo lungo perché delle persone comuni potessero intuire la differenza e prevedere degli eventuali sviluppi futuri.
La sua particolarità maggiore, insomma, era proprio quella di guardare alle cose da un punto di vista diverso: quello dell’utente. Per questo ebbe successo e la sua filosofia divenne una delle più importanti su scala globale.
Steve Jobs credeva nella diffusione dei PC
Proprio egli credeva fermamente che nel giro di solo qualche anno i computer personali sarebbero diventati ampiamente diffusi in tutto il mondo: un bene di consumo diffusissimo, come molti altri.
Era un’idea stravagante negli anni ’80 e pochi ci credevano, considerando anche che i computer a quell’età erano primordiali e per niente potentissimi. Non a caso venivano considerati delle versioni ridotte dei grandi mainframe. Persino la IBM stessa la pensava in quel modo.
E mentre qualcuno li considerava delle semplici macchine da gioco o da calcolo, Steve Jobs la pensava in un modo radicalmente diverso. Per lui non era delle semplici macchine per i videogiochi, né delle console da collegare alla tv e utilizzare per giocare.
Erano degli oggetti differenti, futuristici, che potevano venire evoluti ulteriormente fino a diventare degli oggetti centrali nella vita di moltissime persone.
Già allora la sua mente diversa intuiva che quelle scatole di plastica con l’hardware dentro avrebbero cambiato il mondo e sarebbero presto diventate una vera e propria bicicletta per la mente: uno strumento piccolo, versatile, potente. Per questo si dice che egli avesse un’enorme visione: riusciva a vedere le cose del mondo 2 passi in avanti.
Già al tempo si mostrava molto attento a ogni dettagli e particolare che gli saltasse all’occhio e anche per questo in tanti lo consideravano alla stregua di un perfezionista che cercava sempre di spingersi oltre.
Ai tempi dell’Apple II lui stesso fu uno dei primi a posizionare l’intero hardware in un case fatto di plastica ABS e aggiunse al computer una tastiera grazie alla quale l’utente poteva controllare il computer meglio.
Apple rivoluziona gli anni settanta
Oggi sembra semplice, banale, ma nel 1977, quando venne creato il primo sistema Apple, era un’idea alquanto stramba, rivoluzionaria.
E segnò l’inizio di quella che in futuro sarebbe stata considerata la metodologia di Jobs. La tradizione proseguì prima con i sistemi Macintosh e quindi con i sistemi NeXT. Ancor oggi questa tradizione che ormai sembra del tutto banale, se non inutile, prosegue con gli iPod, gli iPhone e gli iMac.
Un altro punte fondamentale dell’intera filosofia di Steve Jobs riguardava il fatto che secondo lui le decisioni fondamentali non riguardavano le cose che si sceglie di fare, ma quelle che si sceglie di non fare.
Per questo egli veniva spesso considerato alla stregua di un minimalista molto attento a ogni dettaglio. Riusciva a vedere ciò che le altre persone ignoravano. Come raccontano i suoi amici, entrando nella casa di Jobs spesso si poteva vedere che era del tutto completamente priva di arredamento.
Spesso aveva solo una lampada Tiffany, un letto, una sedia e una foto di Einstein, che rispettava tantissimo sia in quanto scienziato che in quanto uomo. A tutto questo si aggiungeva anche un altro elemento importante: il suo essere alternativo.
Lui, che credeva fermamente nel design industriale in quanto metodo, non poteva proprio permettersi di copiare il design già inventato e messo a punto da altre aziende.
Doveva inventarsi qualcosa di completamente suo, che non fosse simile a nient’altro. Una missione difficile, questa, ma senz’altro non impossibile.
Il termine di paragone che egli voleva trovare, insomma, non poteva basarsi sui prodotti di altre aziende, ma riguardare degli oggetti differenti, come dei gioielli. Si dice che abbia preso ispirazione dalle maniglie delle porte per creare il design dei primi melafonini: sarà una leggenda?
Steve Jobs attenzione maniacale per i dettagli
A differenza di molti altri, Steve rifletteva su ogni cosa fatta. Ogni dettaglio, ogni particolare, anche l’elemento più singolo: tutto aveva una grande importanza. E quest’importanza Jobs la trasmetteva a tutto il gruppo di lavoro. Non importava chi stesse partecipando al progetto, quali erano le mete o i fini.
Bisognava per forza di cose raggiungere il fine ed era proprio quello il vantaggio che Steve Jobs aveva su moltissimi concorrenti: egli riusciva a far vivere i progetti immettendo la sua stessa passione nei corpi dei suoi dipendenti.
In questo modo si creava un gruppo di lavoro ben unito, evoluto, con la passione nel corpo e nell’anima. E allora non importava se a lavorare sul progetto c’erano solo ragazzi senza alcuna esperienza oppure dei geni del settore IT.
Con la passione giusta si cercava pur sempre di migliorare in ogni aspetto e alla fine dei conti anche coloro che non avevano nessuna conoscenza nel campo, riuscivano ad accumulare le competenze necessarie al giusto fine.
E laddove le conoscenze mancassero, era lo stesso Jobs a lavorare su più livelli in contemporanea in modo da garantire che proprio tutti, ma tutti, potessero stare al passo con il progetto e non abbandonarlo oppure non appesantire il lavoro degli altri.
Ciononostante, Steve sceglieva personalmente le persone migliori per formare il suo team. Era un fatto personale, di sicurezza: non voleva delegare questo compito a nessun altro, nemmeno alle persone più fidate. Cambiare il mondo, – ovvero fine ultimo della Apple, – non era uno scherzo. Al più era un bisogno, una necessità.
E quando il team era finalmente scelto, completo, restava solo curare i dettagli dell’hardware e anche del software. Perché il cambiamento non doveva essere “solo” estetico, ma anche funzionale: un computer nuovo in una scatola nuova.
Jobs sceglieva i migliori programmatori e tecnici
La mente diversa di Steve Jobs già al tempo riteneva che non fossero necessaria centinaia di programmatori per sviluppare un prodotto. Bastava un team di lavoro piccolo, ma ben preparato e pronto.
E questo valeva soprattutto per il settore IT, allora soltanto in via di sviluppo. Per questo Steve semplicemente assumeva la gente per fare dei lavori di bassa difficoltà, mentre lui e gli altri fornivano le idee.
Egli camminava su e giù per quello stupendo spazio e forniva numerosi consigli, ma quando qualcosa non andava bene, suggeriva il completo rifacimento oppure una parziale modifica del prodotto.
Perché il prodotto finale, quello sì, doveva venire accettato in ogni suo punto, in ogni aspetto estetico o di hardware. Serviva, quindi, un lungo lavoro, un costante studio, una progressiva evoluzione, nonché la necessità di costante miglioramento.
Proprio Steve spronava le persone oltre il loro limite con quel suo “Non va bene” che ormai è diventato abbastanza tradizionale, tanto da essere entrato nel mito come una delle sue frasi più famose. Egli cercava di far che le persone si sentissero parte di un progetto molto più grande, rivoluzionario.
Ed era anche un maestro severo, pronto a bocciare il lavoro se non rispettava dei determinati standard di qualità: doveva raggiungere il livello di perfezione che voleva, altrimenti il prodotto semplicemente non avrebbe visto la luce del sole.
Questo valse anche per il sistema Macintosh, su cui lavorarono molte persone per un diversi anni, finché non raggiunsero ciò che l’ideatore principale del progetto desiderava. Proprio questo approccio al lavoro era destinato a fare la storia e a entrare nei manuali; sarebbe stato al centro anche dell’iPhone e del successivo sviluppo delle idee aziendali.
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Jobs si concentra sulla sensazione dell’utente
Solo successivamente Jobs cercò anche di concentrarsi su un aspetto diverso, non inventato da lui: il look and feel. A quel punto non importava più solo l’aspetto, ma anche la sensazione che l’utente provava durante l’utilizzo.
Bisognava, insomma, puntare anche sui materiali perché l’utente finale potesse “assaggiare” con gli occhi ciò che egli teneva saldamente stretto nella sua mano.
Alla fine dei conti questo era importante non solo per il design dello smartphone, per la progettazione dello software e persino per l’alloggiamento delle varie schede all’interno dello smartphone.
Tutto doveva apparire bello per attrarre: bisognava quindi escludere le varie parti “brutte” e così via. Il livello di perfezione dello smartphone includeva anche numerosi particolari che bisognava “nascondere” perché non fossero in vista.
Ma Steve amava anche analizzare i prodotti degli altri. Così, quando Akio Morita della Sony gli regalò un Sony Walkman, Steve lo smontò fino nei dettagli per capire come fosse costruito.
Era fatto così: voleva capire il mondo intorno “smontandolo” ed era interessato di ogni cosa, sempre, cercando di raggiungere dei nuovi standard di qualità.
Bravo!!! La conoscenza è sempre una bella cosa ed un piacere da acquisire. Grazie.